lunedì 1 aprile 2019

QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA C

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

E' vicino il momento in cui Cristo farà la rivelazione più radicale - e la più incomprensibile per l’uomo - della sua potenza: morire sulla croce. È uno “scandalo per gli Ebrei, follia per i popoli pagani” (1Cor 1,23).
Già prima Gesù aveva parlato ai suoi discepoli della croce, che li stupì e confuse. Quello che osservavano, nel comportamento sociale, è che l’uomo utilizza la debolezza degli altri per affermare il proprio potere. Ma Gesù diceva loro: “I re delle nazioni... e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così” (Lc 22,25). E i farisei che pretendono di usare una povera donna, colta in flagrante delitto di adulterio, per compromettere Gesù, gli danno in effetti l’occasione di insegnare con un esempio i suoi nuovi metodi.
In primo luogo Gesù mette in evidenza l’ipocrisia dei farisei: “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra. Dopo, toglie loro qualsiasi argomentazione. Mette in evidenza la loro ignoranza colpevole della legge che insegna che Dio, essendo potente sovrano, giudica con moderazione e governa con indulgenza, perché egli opera tutto ciò che vuole (Sal 115,3). Infine - e questo è il punto più importante del Vangelo -, Gesù insegna alle folle che non esiste più grande manifestazione di potere che il perdono. La morte stessa non ha un così grande potere. In effetti, solo il potere di Cristo, che muore crocifisso per amore, è capace di dare la vita. E soltanto il potere che serve a dare la vita è vero potere.



Neanche io ti condanno

Gesù è per noi cristiani colui che ci svela il volto di Dio. Conosciamo la sua misericordia attraverso le parole e le opere di suo Figlio. Possiamo crederci perché abbiamo visto nella storia di quell’uomo il potere liberante della misericordia.
C’è una certa confusione su questo termine, nel linguaggio comune. Qualcuno immagina che, vista la bontà di Dio, sia piuttosto equivalente peccare o non peccare. Qualcuno pensa che, dati i limiti umani, sia inutile lottare contro i vizi e impegnarsi per la realizzazione di un mondo migliore. Di fatto svilisce il peso dei propri sbagli sulle altre persone.  
Gesù non nega né giustifica il peccato della donna adultera. Anzi, le intima di non peccare più. Di fronte alla domanda di scribi e farisei che gli chiedono un parere sulla Legge di Mosè, Gesù non la corregge. Non è in discussione quel peccato: come Dio non ha tradito il suo popolo, gli esseri umani non tradiscano il meraviglioso patto che costruisce una nuova famiglia.
Gesù sembra prendere tempo. Scrive nella terra polverosa della città, si mette in ascolto delle fatiche di quella persona che ha sbagliato, si chiede se quella condanna estrema e definitiva (la morte per lapidazione) sia davvero la volontà del Padre. La misericordia non cancella la giustizia, semmai mette di fronte alla verità: ha diritto di eseguire la condanna chi non ha mai peccato. Sappiamo che non si trovò nessuno. 



 NEI TUOI PECCATI, I MIEI

A dirti proprio la verità, Signore,
provo un sottile compiacimento nel notare i peccati degli altri,
nell’ergermi a paladino della giustizia,
nel marcare la differenza dai miei comportamenti.
Sì, sbaglierò anch’io, ma in aspetti secondari, in piccole cose…
e la mia mente corre a rintracciare giustificazioni e scusanti,
senz’altro non dovute a mie colpe. Invece gli altri…
Invece gli altri non li conosco,
non so nulla del loro percorso e neppure delle loro possibilità. 
Non ho mai provato le loro fatiche, non ho mai vissuto la loro storia,
non ho il diritto di puntare il dito.
Ma di certo quegli altri non li amo: se avessi un minimo di affetto
proverei a comprenderli prima di giudicarli,
proverei ad accoglierli prima di indicarne le distanze,
proverei a recuperarli prima di condannarli.
Sì, Signore: quando vedo i peccati degli altri ricordami i miei,
affinché la mia misericordia possa meritare la tua,
quando la tua terra coprirà il male che ho fatto
mentre il mio cuore sarà accolto nel tuo.


  
VANGELO VIVO


Qualcuno parla di miracolo; altri di «ultimi che diventano primi». La Fondazione Delancey nasce a San Francisco negli anni 70 e per molti anni è guidata da Mimi Silbert, criminologa di una famiglia scampata all’Olocausto. Il suo scopo è recuperare spacciatori, rapinatori, tossici, violenti ed emarginati di ogni genere. Ha una ricetta semplice: responsabilità, fraternità, futuro. La sede è una bella zona della città: casette basse e eleganti, verde, pulizia, caffetteria libreria, palestra, teatro, sale comuni, officina ripara tutto. Fu costruita dagli stessi ospiti della struttura, sotto la supervisione dei sindacati edili. La prima cosa che viene insegnata è il rispetto reciproco per se stessi. Ognuno ottiene un diploma, impara tre mestieri e mette a frutto le sue passate professionalità a favore degli altri. Chi sgarra viene allontanato e nessuno è costretto a rimanere. Se si superano i primi tre mesi (lo fa il 70%), quasi tutti restano. La fondazione non riceve sussidi: vive del lavoro degli ospiti e della beneficienza. Oggi è presente in varie città degli USA.   


Aprire le porte del proprio cuore

Una delle grandi difficoltà della vita comunitaria è che a volte si obbligano le persone ad essere diverse da quelle che sono; gli si stampa addosso un ideale al quale devono conformarsi. Ci si aspetta troppo da loro e ben presto li si giudica e li si etichetta. In una comunità non si tratta di avere delle persone perfette. Una comunità è fatta di persone legate le une alle altre, ognuna fatta di quel miscuglio di bene e di male, di tenebre e di luce, di amore e di odio. E la comunità non è che la terra nella quale ognuno può crescere senza paura verso la liberazione delle forze dell'amore che sono nascoste in lui. E non ci può essere crescita se non si riconosce che è possibile, e la crescita non si realizza mai se si impedisce alle persone di riconoscersi e di accettarsi così come sono.
Hanno bisogno di essere conformate e incoraggiate alla fiducia. Hanno bisogno di sentire che possono condividere con gli altri anche le loro debolezze, senza essere respinte.
Teresa di Lisieux scrive che meditando sul comandamento di Gesù di amare gli altri come Lui li ama, aveva capito quanto fosse imperfetto il suo amore per le sorelle:
«Ho visto che non le amavo come il Buon Dio le ama. Ah! Ora capisco che la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti degli altri, nel non stupirsi affatto delle loro debolezze, nell'edificarsi dei più piccoli atti di virtù che li si vede praticare» (Santa Teresa del Bambino Gesù, Manoscritti autobiografici).
Amare gli altri è riconoscere i loro doni e aiutarli a svilupparli; è anche accettare le loro ferite ed essere pazienti e compassionevoli con loro.'
Accogliere è sempre rischiare, disturba sempre. Ma Gesù non viene forse a disturbarci nelle nostre abitudini, nei nostri comodi, nelle nostre stanchezze?
Bisogna che siamo costantemente stimolati per non cadere in un bisogno di sicurezza e di comodo, e per continuare a camminare dalla schiavitù del peccato e dell'egoismo verso la terra promessa della liberazione.
Accogliere non è per prima cosa aprire la porta della propria casa, ma aprire le porte del proprio cuore, e con questo diventare vulnerabili. È uno spirito, un atteggiamento interiore. È prendere l'altro all'interno di sé, anche se è una cosa che disturba e toglie sicurezza; è preoccuparsi di lui, essere attenti, aiutarlo a trovare il suo posto.
Jean Vanier 



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